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Malattie autoimmuni

Malattie epatiche croniche: rivedere il ruolo dei biomarcatori può migliorare la presa in carico

Cresce in tutto il mondo l’incidenza delle malattie epatiche, causa ogni anno di circa due milioni di decessi dovuti principalmente a cirrosi e carcinoma epatocellulare. La malattia epatica steatosica associata a disfunzione metabolica (Masld, precedentemente nota come Nafld), per esempio, è una condizione potenzialmente reversibile che attualmente colpisce il 15%-40% della popolazione adulta nei paesi occidentali e orientali. Di questi, il 20-30% può evolvere in steatoepatite associata a disfunzione metabolica (Mash, precedentemente Nash), che interessa l’1%-7% della popolazione adulta in Occidente e in Oriente e che oggi rappresenta la principale causa di fibrosi epatica, cirrosi ed epatocarcinoma.

“L’epidemiologia delle malattie epatiche è cambiata negli anni” spiega in una videointervista rilasciata ad AboutPharma Patrizia Burra, professore associato di gastroenterologia e responsabile dell’unità trapianto multiviscale presso l’Azienda ospedaliera università di Padova. “Da circa dieci anni quando sono stati introdotti i nuovi farmaci contro l’epatite C, si è osservata una diminuzione dei nuovi casi della malattia virale e contemporaneamente abbiamo osservato un aumento delle forme di steatosi epatica associata ad alterazioni metaboliche. Inoltre negli ultimi anni c’è stato un incremento della colangite sclerosante primitiva che può associarsi anche allo sviluppo di colangiocarcinoma”.


L’importanza dei biomarcatori

La colangite sclerosante primitiva, in particolare, come la colangite biliare primitiva, rientra tra le malattie autoimmuni del fegato, in cui si ha un’alterazione del sistema immunitario che attacca l’organismo stesso. Nel caso in cui a essere aggredito sia il fegato si parla di epatiti autoimmuni, se si tratta delle vie biliari invece, si parla di colangiti.


Spiega Pietro Invernizzi, direttore scientifico della fondazione Irccs San Gerardo dei Tintori e professore ordinario in gastroenterologia presso l’università di Milano-Bicocca in un’altra videointervista rilasciata ad AboutPharma: “Queste malattie autoimmuni del fegato sono caratterizzate da marcatori, cioè enzimi epatici che indicano una sofferenza d’organo. Si tratta delle transaminasi ALT (alanina aminotransferasi) e AST (aspartato aminotransferasi) per il fegato e della fosfatasi alcalina (ALP) e della γ-glutamil transferasi (GGT) per le vie biliari”. In generale però, “questi quattro enzimi epatici sono indice della salute del fegato e chiunque veda un’alterazione dei loro valori, anche il medico di medicina generale, deve avere il sospetto di una malattia epatica”.



Il ruolo di ALT

Questi biomarcatori sono ancora oggi fondamentali per una diagnosi precoce e per gestire i pazienti sin dalle cure primarie, in modo da inviarli per tempo ai centri specializzati e prevenire la progressione di condizioni gestibili in modo da ridurre la necessità di interventi urgenti. ALT in particolare è il più sensibile ed è fondamentale per la previsione degli esiti clinici e la guida degli interventi in diverse malattie.

Continua Burra: “Le due transaminasi sono marcatori facili da rilevare con un esame del sangue ed economici. ALT però è più specifico perché si trova solo all’interno della cellula epatica, mentre AST è presente in diversi tessuti oltre al fegato, come muscoli, cuore e rene. Motivo per cui ALT è usato dagli specialisti per molte forme epatiche, sia virali sia metaboliche. La tendenza però è di variarne i limiti perché ci sono condizioni in cui la soglia riportata dal laboratorio può non corrispondere esattamente al grado di malattia o interessamento del fegato”.



Integrare più sistemi


Burra si riferisce al fatto che i livelli di ALT sono influenzati da diversi fattori, come età, sesso e rischi metabolici, rendendo complessa l’applicazione di soglie specifiche. Inoltre evidenze emergenti suggeriscono la necessità di ridefinire gli intervalli di ALT per migliorare la sensibilità e l’accuratezza nella rilevazione delle anomalie epatiche. Per questo di recente è stata condotta una revisione approfondita delle evidenze e un confronto tra esperti – a cui hanno partecipato anche Burra e Invernizzi – per valutare le implicazioni pratiche dell’ottimizzazione delle strategie diagnostiche basate sull’ALT. Come l’integrazione con altri biomarcatori della funzionalità epatica, tecniche non invasive multiparametriche e di imaging, nonché con strumenti emergenti basati sull’intelligenza artificiale (Ai), che possono potenziarne ulteriormente l’utilizzo, consentendo di adattare le strategie diagnostiche sia nell’assistenza primaria che in quella specialistica.

“Il marcatore perfetto non esiste” commenta Invernizzi che ricorda come queste diagnosi continuino a essere complesse perché basate su diverse manifestazioni della malattia. Per quanto riguarda l’Ai aggiunge: “È una tecnologia aggiuntiva che migliora le nostre prestazioni soprattutto in caso di diagnosi complesse che devono mettere insieme diversi aspetti. Ormai si sono accumulate molte evidenze, anche se ancora in ambito sperimentale, che sarà di ausilio e un vantaggio nella pratica clinica di qualsiasi medico. Succederà a breve ma oggi non è ancora realtà”.



Approccio personalizzato


Il fine ultimo insomma è personalizzare gli approcci diagnostici sia nella medicina primaria che in quella specialistica, per garantire interventi tempestivi e mirati, prevenire la progressione delle condizioni epatiche gestibili e ridurre, di conseguenza, la necessità di invii specialistici urgenti.

Fondamentale in questo scenario il ruolo del medico di medicina generale. “Dobbiamo essere in grado di creare una rete che ci permetta di avere un interscambio di informazioni e di fare uno screening adeguato sul territorio” precisa Burra. “Il rapporto con la comunità dei colleghi della medicina generale è un punto cruciale”.

È d’accordo anche Invernizzi convinto che spetti anche agli specialisti impegnarsi per diffondere la conoscenza di queste malattie rare, non sempre note alla classe medica. “È la sfida a cui, con una comunità di epatologi, ci stiamo dedicando da tempo, convinti che questa conoscenza debba essere diffusa a qualsiasi professionista della salute” conclude. “Poi a seconda del grado, stadio e complessità di malattia si deciderà chi prenderà in carico il paziente. Le forme semplici possono essere gestite anche in centri di primo o secondo livello, ma più è complessa la situazione medico-clinica e più il paziente ha bisogno di riferimenti e di centri terziari”.

Fonte: aboutpharma.com


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